di Gian Pietro Caliari
La canaglia politico-mediatica che oggi spadroneggia in quell’antica e nobile Civiltà, che era l’Europa, ci ha abituato – da ormai oltre trent’anni – ai suoi goffi e grotteschi trasformismi.
Dai dati sullo spread all’austerity, per “salvare l’economia”; dalle controverse e, spesso, fraudolenti informazioni elaborate dall’ Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite (IPCC) ai Fridays for future per “salvare il pianeta”; dagli autoproclamati esperti virologi al generale in camice e siringa per “salvare vite umane”; e, infine, a un governo con elmetto e moschetto per “salvare la pace in Europa”.
Lo story telling è così ripetitivo e noioso che persino un’idiota dovrebbe aver intuito, o almeno dovrebbe cominciare a sospettare, che quello che le attuali dirigenze mondiali globaliste e neoliberiste vogliono veramente “salvare” è solo – direbbe il Guicciardini – il “particulare suo”, vale a dire il loro proprio ed esclusivo interesse.
In questo inquinato e putrido panorama, oltremodo si distingue la canaglia politico-mediatica italiana!
In un frangente tanto delicato e decisivo del futuro dell’Europa, l’autocrate governo dell’Italia e il suo esautorato Parlamento, dopo aver sottratto al popolo la sua sovranità ora si stanno impegnando – al di là di ogni ragionevole dubbio – per estorcere agli italiani l’ultimo barlume di dignità ed espropriarli d’ogni prospettiva di futuro.
L’Italia, infatti, è uno Stato da cui è stata “bandita la Giustizia” e all’interno dell’attuale Soviet Supremo Italiano convivono solo, per citare Sant’Agostino, quattro “bande di briganti” che hanno per solo scopo il proprio arricchimento a spese altrui (cfr. De Civitate Dei, IV, 4).
La prima è quella dall’autocrate affarista Mario Draghi, che incarna il peggio delle élite globaliste, neoliberiste e neocom democratiche per il quale il popolo è solo carne da macello sull’altare del dio denaro: “whatever it takes”.
La seconda è quella capeggiata dal nulla cosmico di Luigi Di Maio, che rappresenta il peggio dell’arrivismo egotista, asservito ai Padroni del Caos, col solo personale obbiettivo di non essere “un buco nero” nello spazio politico e per il quale il popolo è solo un taxi per giungere alla destinazione del suo personale potere.
La terza è capeggiata dallo “sguattero di casa” Enrico Letta e dei suoi sodali, alfieri di quel cattocomunismo o cattolicesimo adulto della sinistra ex-democristiana, che dalla difesa del proletariato si sono trasformati in feroci paladini del politicamente corretto e moralmente corrotto.
Per loro, il popolo è sempre stato – sic et simpliciter – sostituito dall’internazionalismo: l’internazionalismo ideologico di Lenin, ieri, l’internazionalismo del capitale incarnato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, oggi.
C’è, infine, la banda della cosiddetta “opposizione” – sia interna che esterna al Soviet Supremo di Palazzo Chigi – che pur di non sparire dalla scena di “coloro che piacciono alla gente che piace”, è ormai composta da disertori seriali.
Questi ultimi, pur avendo avuto nel passato, la nobile capacità di affrontare il popolo a viso aperto e, in parte di capirne le sacrosante ragioni, quando giunge l’ora del combattimento politico, i colpi preferiscono sempre prenderli nella schiena.
Invano, ma profeticamente, aveva ammonito Platone: quando la demo-crazia si corrompe, la teatro-crazia ha il sopravvento!
Così la sovranità che appartiene al popolo, come ancora recita la defunta Costituzione dell’ex Repubblica Italiana, e il sacrosanto principio che “omnis auctoritas a populo est” – come ancor prima scrisse San Tommaso d’Aquino – sono stati sottratti e consegnati ai teatranti di turno, ai loro scenografi occulti e ai loro suggeritori imbucati.
Teatranti costretti a ripetere desueti copioni, in cui alternano sacerdotali ireniche invocazioni, imprecazioni e insulti d’avvinazzato, fantasiose e irrazionali affermazioni come guitti di una misera borgata.
Ben altra cosa se si cercasse di analizzare con un minino di lucidità quanto di tragico sta avvenendo in Ucraina.
Un presidente da cabaret, sui tacchi a spillo, e mediocre attore nella serie televisiva “Il servitore del popolo”, Volodymyr Zelensky ha gettato l’Ucraina prima nel caos della instabilità, della corruzione, del sopruso e della violenza, consegnandola, prima, mani e piedi alle élite globaliste dei soliti noti, e ora obbligandola subire i drammatici scenari della guerra.
Dopo il “colpo di stato” di piazza Maidan del 2014 – orchestrato dall’amministrazione Obama-Biden-Clinton – l’avvento di Zelensky al potere nel 2019 è stato diretto, dai soliti e ben noti circoli che fanno capo alla Open Society, “per sconfiggere la corruzione e portare stabilità politica”.
Come certificato dalla Corte dei Conti dell’Unione Europea, lo scorso settembre, la corruzione è il meccanismo stesso dell’amministrazione Zelensky; mentre l’unica stabilità politica è data dai contrapposti interessi fra gli oligarchi al potere e le loro milizie armate – dal distinto orientamento ideologico neonazista – integrate da Zelensky nei ranghi della Polizia ucraina.
Per comprendere l’instabilità sociale, economica e politica dell’Ucraina basti un solo dato.
Al momento della dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, l’Ucraina contava quasi 53 milioni di abitanti; oggi sono poco meno di 35. Ben prima delle attuali vicende, dunque, milioni di ucraini hanno scelto miglior fortuna fuori dal proprio Paese natale.
Da oltre otto anni, l’infiltrazione degli interessi economici americani – che hanno come protagonista la stessa famiglia Biden – per le materie prime dell’Ucraina, insieme all’infiltrazione delle lobby ideologiche della sinistra statunitense hanno reso l’Ucraina – a differenza di Polonia e Ungheria – l’obbiettivo perfetto per iniziare l’instaurazione forzata del nuovo ordine mondiale unipolare promosso, da Clinton in poi, da tutte le amministrazioni statunitensi a guida democratica.
L’annuncio, infine, lo scorso 19 febbraio da parte di Zelensky di volersi dotare dell’armamento nucleare – che comportava implicitamente l’annuncio di un accordo in tal senso con la Casa Bianca – è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza del Cremlino.
Fra il popolo ucraino, poi, ancor più vittime sono gli ucraini di lingua o etnia russe che umiliazioni, discriminazioni, sofferenze, atrocità e veri e propri atti di guerra – specie nel Donbass – li sopportano fin dai tempi del golpe di Piazza Maidan e che si sono moltiplicate e intensificate dal 2019 sotto il regime di Zelensky, in aperta violazione con gli impegni internazionali sottoscritti nei due Accordi di Minsk del 2014 e del 2015.
Ricordando la complessa composizione etnica-linguistica e religiosa dell’Ucraina, Henry Kissinger così sintetizzava già nel 2014 le radici del problema ucraino: “L’Ucraina è indipendente da soli 23 anni; in precedenza era stata sotto una sorta di dominio straniero sin dal XIV secolo.
Non sorprende che i suoi leader non abbiano imparato l’arte del compromesso, tanto meno della prospettiva storica. La politica dell’Ucraina post-indipendenza dimostra chiaramente che la radice del problema risiede negli sforzi dei politici ucraini di imporre la loro volontà alle parti recalcitranti del paese, prima da una fazione, poi dall’altra” (To settle the Ukraine crisis, start at the end, in: The Washington Post, 5 Marzo 2014).
Zelensky con i suoi sodali di Washington e New York sono i primi responsabili e i principali colpevoli di quanto tragicamente sta vivendo e soffrendo il popolo ucraino!
Sempre, infatti, quando i comici calcano la scena della politica, la loro commedia finisce sempre in tragedia. Zelensky docet!
Parimenti i teatranti del Teatro Italia, imperterriti e per nulla pensosi, stanno trasformando l’indecente commedia italiana, che va in scena da ormai quasi cinque anni, in una macabra tragedia di devastazione per l’ormai annichilito popolo italiano.
La prima vittima di ogni guerra – si dice – è la Verità; ma la prima causa di ogni guerra non è il complotto, ma la menzogna!
Durante l’assedio d’Ippona da parte dei Vandali, il suo Vescovo Agostino scriveva al tribuno romano Bonifacio che affrontava le truppe barbare: “Non enim pax quaeritur ut bellum excitetur, sed bellum geritur ut pax acquiratur. Esto ergo etiam bellando pacificus, ut eos quos expugnas, ad pacis utilitatem vincendo perducas” – “Non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace. Sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi” (Epistula CLXXXIX).
Il Soviet Supremo di Palazzo Chigi – eterodiretto dall’Ufficio Ovale, dai circoli dem di Washington e dall’euroburocrazia di Bruxelles – è riuscito nel non facile risultato di rendere l’Italia, nel prossimo futuro, la maggiore vittima economica del conflitto e di annullare, nell’immediato, qualsiasi residua capacità diplomatica e negoziale del nostro Paese.
Persino nei bui e lunghi anni della Guerra Fredda, pur rimanendo saldamente nel confine dell’Alleanza occidentale, l’Italia era sempre stato un interlocutore privilegiato per Mosca, sia nello scenario europeo sia negli altri scenari dove – a livello di periferia planetaria – si dipanava l’opposizione dei due blocchi.
L’attuale classe dirigente italiana – a differenza di quella del passato – non ha capito che se sul terreno è in atto un conflitto tattico fra Ucraina e Russia, in realtà, è in atto un vero e proprio confronto strategico fra “un certo Occidente” – quello neo-global e neo-liberal della sinistra americana – e l’alfiere, per nulla isolato, di una altra visione del mondo.
Quello in corso è l’esito finale di una “mondializzazione felice” che tenta con ogni mezzo di asfissiare – economicamente, mediaticamente e idealmente – chi sempre più a viso aperto si oppone a un ben preciso progetto dei democratici americani: la trasformazione della Nato in un’alleanza globale in funzione antirussa e anti-cinese; e l’imposizione del pensiero unico della sinistra americana.
Un progetto – che come dimostrano le votazioni all’Assemblea Generale dell’Onu – è apertamente contestato anche da altri grandi Paesi come la Turchia, l’India, il Brasile, il Pakistan, vale a dire con Russia e Cina da più di un terzo dell’umanità.
Per gli Stati Uniti – a guida democratica – l’Eurasia è sempre stata il ghiotto boccone che la globalizzazione a stelle e strisce voleva afferrare.
“Per gli Stati Uniti – scriveva già nel 1998 Zbigniew Brzezinski – il premio geopolitico più importante è rappresentato dall’Eurasia, il continente più grande del globo”, che “occupa, geopoliticamente parlando, una posizione assiale, dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo. Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per 3/4 sulle risorse energetiche conosciute. L’Eurasia è quindi la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia globale” (La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Milano, 1998, p. 57).
E, conclude, “la capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo con cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia: e la priorità deve essere quella di tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti” (Ibidem, p. 85).
In questa scacchiera statunitense – non l’hanno capito né a Bruxelles né tanto meno a Roma – l’Europa occidentale è una pedina non solo del tutto ininfluente e ben facilmente sacrificabile. Anzi, ne è la vittima predestinata, per ben tre ragioni!
Gli Stati Uniti, innanzi tutto, sia nel conflitto in corso sia nel caso di una sua possibile estensione, non muoveranno né un uomo né un dito.
La Nato, poi, senza l’essenziale partecipazione degli americani, dal punto di vista militare è solo un guscio vuoto.
Le sanzioni contro la Russia, poi, avranno i suoi più devastanti effetti sull’Europa occidentale. Agli alti indebitamenti dei Paesi dell’Unione Europea, nonostante il congelamento del 40% delle sue riserve all’estero, la Banca Centrale Russa possiede riserve per 630 miliardi di dollari e, come annunciato ieri, risponderà dei suoi pagamenti all’estero solo in rubli.
La sospensione, inoltre, della Russia dallo Swift bancario – che è sostanzialmente un sistema di mutua assicurazione sui derivati – rischia di provocare una crisi maggiore di quella di Lehman Brothers del 2008.
Un’eventuale crisi finanziaria non toccherà né Russia né Cina, che hanno già in funzione un sistema alternativo chiamato SFS, con cui via Pechino la Russia potrà continuare a operare sui mercati finanziari e la Cina vedrà ulteriormente rafforzate la sua potenza e influenza.
Per l’Europa, infine, nell’indifferenza generale l’attuale crisi ha permesso che si riaprisse il “vaso di Pandora” della Germania.
L’annuncio del Cancelliere tedesco che Berlino riavvia un massiccio e rapido riarmo del suo esercito mette fine al patto europeo del 1950 con cui la Germania prendeva atto del suo passato nazista e metteva fine alle sue ambizioni egemoniche-militari sull’Europa.
Così come le sconcertanti affermazioni della tedesca Ursula von der Leyen che si entusiasmava perché “per la prima volta in assoluto l’Unione europea finanzierà l’acquisto e la consegna di armi ed equipaggiamenti militari” (27 febbraio 2022), mette fine al mito che l’Unione Europea e la sua appartenenza sia garanzia di pace per il Vecchio Continente.
“Non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace” – ammoniva Agostino.
Un monito dimenticato dagli attuali leader italiani ed europei, tanto più che la guerra reale in corso è quella fra “l’ottenere la pace” o vivere in un mondo unipolare dominato dalle élite dell’ideologia globalista e neoliberista al comando a Washington. Se questa visione dovesse prevalere l’Europa sparirebbe nella sua dimensione di civilizzazione e di cultura e gli Stati europei diventeranno ancor di più e solo la catena di trasmissione di scelte, decisioni e ordini che arriveranno da altrove.