IL PARERE DI
Guido Peter Broich
Cav.Gr.Uff. Comm. Dr. Prof.
Laurea in Medicina con lode a Pavia, Specialista in Otorinolaringoiatria e Igiene e Medicina Preventiva, già Aiuto Ia Clinica ORL Università di Milano e Assistant Professor al Dipartimento di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Maxillofacciale della Università di Cincinnati, Ohio, e Docente presso la State University of New York. Già Direttore Generale di ASL, Direttore Sanitario di Ospedali pubblici e privati e Presidente di Società partecipate. Esperto in Organizzazione dei Servizi Sanitari.
Intervistato da Realizzare Insieme
Realizzare Insieme
Professore, abbiamo appena terminato l’ultima rilettura del suo articolo titolato “Legge 833 – Un requiem” pubblicato dall’Informatore Vigevanese lo scorso 22 aprile che ha suscitato l’attenzione dei nostri iscritti così come credo susciterà l’interesse di quel ceto medio che, come Lei afferma, rinuncia sempre più ad esami e visite preventive di controllo gravate da una miriade di ticket.
Poi, leggiamo ciò che, crediamo, preoccupi molto non solo il ceto medio ma tutti i cittadini.
Ovvero quella tesi secondo la quale l’esigenza delle Regioni di controllare la spesa sanitaria le spinge al “governo della domanda”.
Ecco allora sorgere due chiare e dirette domande.
Ma davvero, come Lei afferma, stiano scivolando o siamo già arrivati alla “discriminazione per reddito”?
Andiamo avanti così oppure è necessaria una rivisitazione della 833 che lei definisce “morta”?
E cosa rivisitare in primis?
Guido Broich
La legge 833 istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale nasce con un reciso fine: assicurare una completa assistenza sanitaria e tutela della salute in modo uguale e senza distinzioni a tutti i cittadini.
Questo fine oggi è stato eroso da una miriade di norme aggiuntive successive, che – seppur mantenendo la forma e a parole i principi di universalità, equità e gratuità del sistema – ne cambiano profondamente i parametri applicativi. Senza volerci addentrare in dettagli tecnici, basti ricordare alcuni elementi che limitano l’accesso ai servizi offerti gratuitamente all’interno del sistema pubblico e dall’altra cancellano del tutto la gratuità imponendo pagamenti in proprio.
Per questo voglio rispondere per primo alla seconda parte della Sua domanda, relativa alla progressiva riduzione della gratuità ed equità per tutti tramite la istituzione del cosiddetto “ticket”. Esso non è altro che una franchigia assicurativa applicata all’utente da pagate in proprio. Tale franchigia è costantemente cresciuta nel tempo, sia come importo globale per prestazione, che tramite artifici burocratici finalizzati ad aumentarne il costo al paziente. Basti pensare al fatto che il tetto di costo teoricamente applicabile al paziente, viene aggirato legalmente tramite il frazionamento obbligatorio delle ricette, in pratica la impossibilità di prescrivere più di un certo numero di prestazioni. In tale modo il tetto non viene più applicato al ciclo diagnostico o di cure, ma più volte all’interno dello stesso ciclo. Con tale frazionamento il costo globale di una prestazione può facilmente raggiungere 300-400€, come per esempio per una normale gastroscopia, divisa in visita, gastroscopia, prelievo bioptico ed esame anatomopatologico. Questa situazione ha portato al fatto che in molti esami di laboratorio, per esempio, il costo del ticket è pressoché uguale alla tariffa riconosciuta al laboratorio; pertanto, al fatto che ai pazienti non esenti gli stessi laboratori suggeriscono di non prenotare come SSN, ma come privati, allo stesso costo ma saltando la fila.
Il sistema pretende che il ticket sia solo una partecipazione sociale e perequativa alla spesa sanitaria da parte dei “ricchi” – termine sempre usato volentieri se si vuole confondere le acque – e che i bisognosi sono esenti. Basta guardare i limiti posti ai redditi famigliari, la certificazione ISEE, per capire che non è così: sono esenti persone sotto i 6 anni o sopra i 65 con reddito famigliare ISEE di meno di circa 36 mila euro lordi annui, i disoccupati con meno di circa 8 mila euro annui, i titolari di assegno sociale senza altro reddito e quelli della pensione minima, sempre col limite di 8263,21 euro lordi annui. (notare i 31 centesimi). Questi limiti rendono legalmente esente solo una parte molto ridotta della popolazione, in povertà gravissima, escludendo totalmente il ceto medio. Stendiamo un velo sugli abusi.
Parallelamente le esenzioni per malattia, prima concepite in modo abbastanza ampio, sono state progressivamente ristrette fino a interessare solo i farmaci direttamente coinvolti dalla patologia e un numero sempre minore di esami di laboratorio.
Soprattutto negli ultimi anni abbiamo dovuto assistere pertanto ad un fenomeno molto grave. Non solo sono scomparsi praticamente del tutto gli esami di prevenzione, i cosiddetti “check-up”, imposti per obbligo dalle assicurazioni americane non certo note per la loro vocazione umanitaria, e da noi ormai lasciati alla sola iniziativa del singolo. Ma sempre più spesso si vede che persone dimesse dopo ricoveri ospedalieri anche gravi ed importanti, eseguono i controlli prescritti solo nei primi 40 giorni, quelli in cui vige l’esenzione dal ticket. Dopo, quando esami e relative visite superano presto le centinaia di Euro, il paziente scompare, non si fa più vedere. Non per indolenza, ma per impossibilità di sostenere la spesa!
Questo comporta un grave rischio per il paziente, ma è anche particolarmente miope per il Sistema Sanitario, che non stimolando e strutturando in modo facilmente eseguibile gli esami di controllo, deve poi assistere le persone colpite da complicanze gravi – e costose! – che sarebbero state facilmente evitabili rinunciando ai ticket. Pochi Euro risparmiati subito pagati molto cari nel lungo termine.
E non mi si dica che il ticket serve per la “perequazione”! In uno Stato serio la redistribuzione sociale del reddito avviene tramite l’imposizione fiscale sul reddito e non escludendo con slogan propagandistici chi guadagna appena abbastanza per vivere dai servizi essenziali. Magari aggiungendo la beffa al danno dichiarandolo “ricco” nei talk show.
Detto questo vengo alla prima parte della Sua domanda. L’ho voluta trattare dopo i ticket, perché se questi costituiscono un fatto grave, ma meramente economico, questa parte va a toccare un punto strutturale e programmatico fondamentale.
L’Italia spende solo due terzi della media europea per la Sanità. Da decenni ormai il mantra che sentiamo ripetuto da destra e sinistra è che bisogna “risparmiare”. Si dice eliminando gli sprechi, ma nella realtà è così? Sono stati eliminati uffici utili solo al mantenimento del sistema stesso? Sono stati ridotti i La mia risposta è un deciso NO. Vediamo cosa è stato ridotto: da più di dieci anni la Regione, seguendo le indicazioni nazionali, impone una riduzione del personale sanitario e non agli ospedali, tramite una riduzione del ricambio tra pensionati e neoassunti quantificabile in media nel 5%. Da anni la Regione, sempre seguendo le indicazioni nazionali codificate nel Decreto Ministeriale 70, riduce i letti ospedalieri, giunti ormai a 3,7 ogni mille abitanti, contro i 6-7 in Francia e Germania. Molte prestazioni prima coperte dal Sistema Sanitario Nazionale oggi sono state tacitamente escluse, soprattutto in oculistica, dermatologia e odontoiatria. E potremmo continuare. Da tutto questo nasce il ragionevole sospetto che in realtà si voglia ridurre i costi generali del sistema, riducendo l’offerta.
È facilmente intuibile che non serve acquistare una TAC moderna, se poi ho disponibilità di tecnici per farla funzionare solo al mattino. Se chiudo gli ambulatori specialistici territoriali riducendo le ore, non posso meravigliarmi se per una visita oculistica devo aspettare sei mesi. Se rendo molti trattamenti di chirurgia minore dermatologica inaccessibili negli ospedali e non fornisco gli strumenti agli ambulatori periferici, è ovvio che il paziente deve rassegnarsi a scegliere la prestazione a pagamento. Non per “rapporto fiduciario”, come direbbe la legge, ma per necessità, come la legge vieterebbe.
Questo sospetto è diventato purtroppo una triste certezza quando un assessore della Regione Lombardia ha dato una direttiva generale alle strutture sanitarie, e precisamente ha coniato il termine del “Governo della Domanda”. Non sappiamo cosa avesse voluto dire realmente, ma quel che ha realmente detto è a mio giudizio terribile: esprime il desiderio di dirigere, governare, indirizzare, limitare e determinare dall’alto quel che il cittadino può chiedere al Sistema Sanitario Nazionale.
Invece di rispondere alle esigenze di sanità del malato, o – sarebbe meraviglioso – ai bisogni di prevenzione e mantenimento della salute del cittadino, come richiede la carta delle Nazioni Unite, lo Stato si adopera per comprimere, indirizzare e definire ex ante qualche il cittadino può chiedere. Potremmo dire che non è la domanda che genera l’offerta, ma una predeterminata offerta ammette una certa domanda.
Questa visione, speriamo solo frutto di insufficiente approfondimento verbale, sarebbe indice di una deriva da piano quinquennale di vago sapere sovietico, e ben lontano dal principio di equità, gratuità e universalità propugnato dalla legge 833. Sarebbe una luce rossa, o meglio un faro di allarme sul modo in cui il nostro apparato vede ormai i principi costitutivi della legge. Gli economisti parlerebbero di approccio autoritario top-down al posto di una evoluzione consensuale bottom-up.
Perché allora dico che la legge 833 sta morendo o è già morta?
In primis perché le prestazioni non sono più gratuite. È tornata – seppur per ora per le sole prestazioni di laboratorio e ambulatorio, ma è un inizio grave – la discriminazione dei cittadini per reddito.
In seconda battuta perché il principio fondamentale di un servizio sanitario pubblico che chiede di ampliare sempre più la libera e non discriminata accessibilità a tutti i propri servizi è disatteso. Riduzione del personale, riduzione dei letti, riduzione delle tipologie di prestazioni e liste di attesa indifendibili sono tutti sistemi efficaci per rendere inaccessibili le prestazioni. Dichiarare pubblicamente di voler “governare la domanda” indica una mentalità che spiega non solo queste riduzioni, ma anche la assenza di ogni opera reale di prevenzione. La prevenzione richiede di “far emergere i bisogni” e stimolare la domanda, offrendo esami di controllo periodici soprattutto ai sani o chi si crede tale. E’ ovvio che tutto questa mania di “governo” riduzionistico si traduce in uno spostamento dei consumi sanitari dalla copertura da parte di erogatori accreditati pagati dal SSN, a quella pagata di tasca propria, aumentando la discriminazione per reddito.
Infine, è ormai palesemente disatteso il principio di equità sul territorio nazionale, in quanto la parcellizzazione e politicizzazione selvaggia della gestione del sistema tra le varie Regioni ha creato differenze all’interno del paese incompatibili con uno stato evoluto moderno.
Ecco perché dico che il Sistema Sanitario Nazionale è ormai una assicurazione monopolista obbligatoria burocratica ed agonizzante, sempre meno rispettosa dei principi di gratuità, equità e universalità fondanti della Legge 833, e pertanto bisognosa di una rifondazione radicale. Una vera e coraggiosa rivoluzione e rifondazione che devono prima di tutto avvenire nelle teste di chi oggi governa il sistema.