di Guido BROICH
Dopo due anni di Pandemia, misconosciuta e sottovalutata drammaticamente all’inizio e poi, dopo un gran numeri di morti che ha visto l’Italia una mortalità da 3 a 4 volte superiore a quella d’oltralpe franco-tedesca, caratterizzata da un risveglio traumatico, di colpo il COVID è uscito dal mirino del giornalismo nostrano. È ora di farsi alcune domande e trarne magari qualche insegnamento.
Diciamolo: ne abbiamo viste di tutti i colori. Esponenti politici che prima invitavano ad “aperitivi antirazzisti” e campagne “abbraccia un cinese”, conviti che la malattia fosse solo una nuova forma di lotta politica contro gli stranieri, dato l’origine cinese, per poi convertirsi a regole di controllo ispirate a metodi più vicini al defunto KGB che all’epidemiologia. Assessori che vedono nella epidemia una opportunità di profilarsi politicamente e un ministro che scompare per sei mesi dalla scena per poi emergere con poche frasi, subito smentite dagli esperti e dagli atti del suo stesso governo, ma riconfermato prontamente nell’incarico. Un piano pandemico a dir poco pasticciato, mai aggiornato ma spacciato per nuovo. Una discussione pubblica su giornali ed in TV che a volte rasenta il ridicolo, quando nello stesso momento gli autocarri dell’esercito cercano di far sparire in fretta e furia e nottetempo le casse con i morti delle valli bergamasche. Alcuni virologi, veri o nati al momento, che seguendo la moda si danno battaglia nelle tavole rotonde televisive e sui “social”, come fossero ragazzini. Banchi a rotelle, mascherine cinesi ed infine autorespiratori prodotti in Italia ed autorizzati alla esportazione, bloccati in extremis dalla Guardia di Finanza nel porto di Genova quando nelle nostre case, RSA e rianimazioni moriva la gente per mancanza di mezzi, sono solo alcuni punti di un dramma sul quale sta per calare un sipario a dir poco irritante. Un teatrino con attori prima furbeschi, poi increduli ed in fine spaventati, che danno una immagine più vicina ad un formicaio disturbato, che di una azione governativa seria ed efficace.
Poche, pochissime, voci oculate puntano da sempre il dito sui problemi veri, tanto semplici da essere evidentemente considerati poco utili nell’agone televisivo, e che possiamo anticipare brevemente:
1. mancanza di letti ospedalieri: una scellerata politica riduzionistica pluridecennale ha portato l’Italia a 3,7 letti per 1000 abitanti, quando Francia e Germania superano gli 8, con malati abbandonati a casa e nelle RSA, 2. posti in rianimazione a meno di un quinto di quelli tedeschi e 3. una spesa sanitaria pro capite ferma a due terzi della media europea.
All’inizio si era contrari ai test, i tamponi, una volta disponibili, venivano osteggiati e la ricerca degli anticorpi nel sangue viene lasciata fino ad oggi alle iniziative personali, con laboratori privati che suppliscono – a pagamento ovviamente – alle necessità.
Il vaccino viene presentato nel modo peggiore possibile con un piglio decisionista che avrebbe spaventato chiunque.
Avendo perso il tempo utile ad un controllo della diffusione all’inizio (controllo che fu invece messo in atto prontamente al livello mondiale per la influenza aviaria, la MERS e altre patologie diffusive precedenti), si propone prima un tracciamento maldestro che in quella fase non aveva più alcun senso e invece di mappare la popolazione a tappeto con tamponi e sierologia, ci si perde in discussioni filosofiche intorno ad un vaccino del quale fino ad oggi non sono del tutto chiare le capacità protettive.
Mancano elementi scientifici basilari. Per citarne solo alcuni, in tempi non sospetti gli igienisti ricordano che una delle cose più importanti in una virosi, è il momento quando il paziente inizia ad essere infettivo: “elemento di notevole importanza pratica è rappresentato dalla precocità con la quale s’inizia l’eliminazione dei virus” (Checcacci et al. Igiene, Ed. Ambrosiana 1975, pag. 171) perché molte virosi iniziano a diffondere il virus qualche giorno prima della comparsa dei sintomi. Non se ne parla.
Il principio base delle vaccinazioni – che sono l’unico mezzo efficace oggi disponibile per le virosi! – fu già stabilito da Jenner nel ‘700: per procedere alla vaccinazione bisogna sapere se il paziente è già in possesso di immunità o meno, cosa che oggi possiamo fare con l’esame degli anticorpi nel sangue. Esso è disatteso a tutt’oggi. Si vaccina senza sierologia, alla cieca. E potremmo continuare per diverse pagine.
Ma credo che quanto detto basti per documentare quel che è successo veramente: un corto circuito totale, generale e gravissimo del sistema sanità. Da noi in modo particolarmente evidente, ma ben evidente anche a livello internazionale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, quella del Piano Pandemico non aggiornato e mai controllato per intenderci, perde tempo prezioso tra la fine del 2019, quando emergono chiaramente i primi casi, e metà 2020, quando ormai il virus ha raggiunto diffusione mondiale, per mettere in atto gli unici mezzi di igiene pubblica efficaci nelle epidemie: identificazione clinica ed isolamento dei malati e controllo mediante esami clinici della circolazione dei soggetti a rischio. Citando ancora il testo di Igiene: “Fra le misure di profilassi diretta, la maggiore importanza sarà data ad un sollecito isolamento dei malati”. Del resto, quando emerge un nuovo virus in Africa le misure restrittive vengono messe in atto prontamente e con successo (ricordiamo l’epidemia di Ebola), nel caso del COVID questo è successo solo dopo mesi di discussioni ed equilibrismi geopolitici attenti alle sensibilità del Dragone, quando ormai erano inutile. Evidentemente anche i virus non hanno tutti uno stesso padre ed alcuni sono figli di un Dio maggiore.
Arriviamo ad oggi. Proprio in questi giorni il governo ha emesso un decreto articolatissimo, dove alcune restrizioni sopravvivono fino al 31 marzo, alcune fino al 15 aprile, altre fino al 30 aprile. Altre ancora – con insolita lungimiranza – restano in vigore fino alla fine del 2022. Saltano all’occhio alcuni aspetti. Il certificato “green pass” è stato abolito per recarsi in banca e nei mezzi pubblici, dall’estetista e dal parrucchiere. Per gli stadi sportivi e le mense basta il “green pass base”, cioè solo tampone senza vaccino. Per andare all’università o a scuola invece resta obbligatorio il vaccino come per convegni e congressi. Parallelamente resta l’obbligo del vaccino per il personale sanitario fino a fine anno. Insomma, aree di certo e pesante affollamento, come i nostri treni pendolari e metropolitane, vengono dichiarate a basso rischio, quando il convegno o la tavola rotonda e la presenza in aula universitaria dove si possono posizionare agevolmente le sedie a distanza, restano sospetti focolai di … beh, vine da chiedere di che cosa.
Dopo la critica, la ricostruzione. Analizziamo i fatti. Intanto torniamo alla biologia. I virus respiratori sono tipicamente legati ad un andamento stagionale che aumenta nei mesi freddi, dove le basse temperature riducono i mezzi di difesa, riducendo l’incidenza in quelli caldi. Poi, come ogni cosa che vive, sono sottoposti alla legge di Darwin. La normale evoluzione di un agente infettivo, soprattutto se capace di rapidissima mutazione come i virus ad RNA, seleziona con ogni ciclo moltiplicativo gli agenti più atti a sopravvivere e diffondersi, e pertanto nelle virosi umane si nota un progressivo maggiore adattamento all’ospite umano con maggiore infettività e minore gravità clinica. L’ospite che sopravvive diffonderà meglio i propri virus di quello che muore. E’ natura naturale, null’altro.
Del resto, basterebbe leggere la storia per sapere che così segue una regola ben nota, già vista durante la “spagnola” negli anni 1918-1921. Anche qui virus ha seguito le ondate stagionali, diminuendo d’estate, e ad ogni ciclo è diventato più infettivo e meno mortale. Nel caso della spagnola ci ha messo tre anni, nel nostro caso sta avvenendo la stessa cosa: inizio nel 2019 con alta incidenza di complicanze, anche mortali, con picco tra marzo e maggio 2020 a livello mondiale, poi riduzione, ripresa nell’autunno per la seconda ondata 2020/21, seguita da una oscillazione che ha portato ad un numero di casi positivi nella terza ondata 2021/22 uguale a quello dell’anno precedente ma con una gravità decisamente ridotta. Il futuro? Uguale alla “spagnola”. Il virus, che ormai è venuto in contatto con una ampia parte della popolazione, si sta adattando all’ospite umano passando dalla fase pandemica a quella endemica, cioè, in parole povere, alla convivenza normale, che raggiungerà probabilmente con la finale coda ciclica in autunno.
Stabilito questo cosa dovremmo fare?
Certamente il rifugiarsi in complicatissimi algoritmi burocratici, dove è più evidente l’influenza dei singoli portatori di interesse che la riflessione scientifica, non porta da nessuna parte. E’ invece sicuramente utile mantenere le regole di buona igiene generale, che sono un ragionevole distanziamento sociale e la disinfezione accurata di mani e ambienti. Se il distanziamento non è possibile, le maschere restano il mezzo più utile di difesa.
Ovviamente il virus non è consapevole se si trova allo stadio o in metropolitana, per cui certe differenze hanno ragioni che esulano dalla biologia. Gli affollamenti sui mezzi pubblici vanno affrontati mettendo a disposizione più carrozze, sistemi di ricambio d’aria moderni e manutenzione degna di un paese avanzato, non chiedendo un green pass che poi nessuno controlla nei fatti.
Ma soprattutto dovremmo cogliere l’insegnamento della pandemia per fare una profonda riflessione sulle insufficienze e sul malgoverno del nostro sistema sanitario.
Dopo una riforma avanzatissima entrata in vigore nel 1980, che aveva finalmente affermato in modo chiaro e incontrovertibile che la salute è un diritto non negoziabile, equo e universale di tutti cittadini, abbiamo visto una progressiva riduzione, erosione e limitazione di questo diritto.
Se confrontiamo le prestazioni erogate nel 2000 e quelle erogate oggi gratuitamente, notiamo una progressiva riduzione. Sono uscite dalla paletta coperta dal SSN molte prestazioni ritenute leggere e non rimborsabili. Allo stesso modo sono uscite socialità farmaceutiche essenziali ma non più coperte e ottenibili solo sul mercato farmaceutico libero, basti pensare a tutte le preparazioni in pomata. La vera gratuità è ormai ristretta alle sole prestazioni ospedaliere. Le prestazioni ambulatoriali sono gravate da ticket, apparentemente ridotti, ma che nella realtà sono tali da incidere sensibilmente sull’economia della persona comune. Il “trucco” di applicare il tetto su ogni singola ricetta, frammentando le prestazioni in più parti, vanifica la norma che prevede un tetto al ticket. DI contro il limite di reddito ISEE per le esenzioni è stato posto ad un livello così basso da escludere dal beneficio tutto il ceto medio. Le esenzioni per patologia sono state ridotte e il fatto che certe patologie irreversibili come amputazioni e asportazioni chirurgiche sono soggette a riconferma periodica mostra che il vero movente non è l’appropriatezza ma la mera riduzione di spesa per mancata erogazione.
Tutto converge verso un solo risultato: il cittadino è dissuaso dal servirsi del sistema sanitario pubblico procrastinando, spesso con risultati drammatici, esami e controlli che avrebbero potuto portare ad una diagnosi precoce.
Emergono due grandi errori di impostazione generale, che il COVID ha drammaticamente portato alla luce, e che attraversano tutta la sanità italiana. Primo, la convinzione di ridurre la spesa sanitaria pubblica, con il malcelato fine di fare gravare le prestazioni cancellate o non ottenibili in tempi utili sul portafogli dei pazienti. La narrazione ufficiale, che si tratta di una “lotta agli sprechi” poteva essere credibile vent’anni fa, ma ormai serve solo a ingannare l’utenza. Del resto il tipico orizzonte programmatico brevissimo della nostra politica, posto a pochi mesi, evidentemente impedisce di capire che è meglio fare dieci esami inutili, piuttosto che mancarne uno, in quanto una sola diagnosi precoce fa risparmiare cento volte i dieci esami dichiarati “non appropriati”. Bisogna passare da una folle filosofia raccolta nella infelice frase del “governo della domanda”, ad una più oculata programmazione di “emersione della domanda”. Bisogna stimolare le persone non a nascondere ma a far emergere le malattie, anche se non hanno ancora dato nessun sintomo, per poterle intercettare presto e con ottima possibilità di cura. In questo tema basti pensare alle malattie cardiovascolari e oncologiche per far capire a chiunque cosa significa perdere anche solo tre mesi nella diagnosi, perché “le liste di prenotazione sono chiuse”.
In questo mito del risparmio rientra l’errore della drammatica chiusura degli ospedali e dei letti. Avere avuto più del 15% di mortalità nella prima ondata COVID contro il 3-4% dei nostri fratelli d’oltralpe non è dovuto a differenza genetica, incapacità medica, divina punizione o semplice sfortuna, ma alla cattiva programmazione, che ha generato la mancanza delle risorse, prime di tutte letti nei reparti e nelle rianimazioni in ospedale. Nel 2017 ebbi a discutere contro chi con massima miopia ha demolito un Dipartimento di Malattie Infettive, e il COVID mi ha dato tragicamente ragione.
Il secondo errore ideologico è voler trascinare la Sanità all’interno dei processi di perequazione del reddito. Il complicatissimo sistema di esenzioni, la cui applicazione, controllo e elusione alla fine costa quanto rende, giustificato con il solito grido “chi guadagna di più deve pagare di più” è un errore strutturale, una manovra in realtà finalizzata alla sola dissuasione di usufruire dei servizi della Sanità. Ritengo che la perequazione e la giustizia sociale debbano essere semplici e trasparenti. Devono essere fatte una volta sola, in un solo momento facilmente controllabile ed equo: a livello di tassazione del reddito. La progressività delle aliquote è lo strumento nato per questo e se ben usato, pienamente efficace.
Far pagare le prestazioni sanitarie, in parte o totalmente, con qualche giustificazione di comodo, è solo un modo semi-occulto per eludere il principio base della universalità ed equità della assistenza sanitaria. Il cittadino dovrebbe essere attratto verso le cure, verso le diagnosi precoci, verso la assistenza medica di cui ha bisogno, non dissuaso, cacciato, gravato e perseguitato. Che sia ricco o povero, bello o brutto, maschio o femmina: il principio intoccabile deve essere che l’accesso alle risorse necessarie ed utili per il mantenimento della salute, in quanto uno dei pilastri dello Stato moderno, è un diritto non negoziabile, non limitabile e non gravabile di orpelli, tasse o barriere di sorta.
Lo Stato deve riconoscere che Salute, Istruzione e Sicurezza costituiscono la giustificazione del suo potere e della sua stessa esistenza e che pertanto sono valori che non possono essere messi in dubbio. Il costo di Salute, Istruzione e Sicurezza giustifica la imposizione fiscale che, in mancanza di essi, diventa arbitrio illegittimo. E per avere i parametri sui quali basare questa spesa, è naturale guardare gli altri paesi europei nostri fratelli di storia, cultura e formazione etica. Lo Stato italiano dovrebbe fissare per legge che le spese per Sanità, Istruzione e Sicurezza non possono essere inferiori alla media dei paesi fondatori della Comunità Europea come definiti dai Trattati di Roma.