di Guido BROICH
fonte: L’informatore Vigevanese
Equa, solidale ed universale – è con queste parole che la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale 833/1978 descrive la nuova Sanità. Nella sostanza si voleva garantire a tutti i cittadini, senza distinzione alcuna, una copertura medica completa. Il sistema delle mutue non garantiva queste aspettative.
Il concetto di fondo era che la tutela della Salute è un bene innegoziabile facente parte dei diritti fondamentali dell’uomo. Per realizzare questo era necessario superare il sistema a scatole chiuse mutualistico, con il suo pagamento e i suoi diritti diversificati. Non si voleva livellare in basso le prestazioni, ma aprire l’accesso di tutti a tutte le tipologie di prestazioni, anche quelle finora riservate alle mutue più elitarie. Il maggior costo della copertura avrebbe dovuto gravare sulla fiscalità generale in modo solidale.
A quel tempo anche la gestione ospedaliera era suddivisa tra molte realtà locali. Il ruolo dello Stato era concentrato sulla gestione dell’Igiene pubblica, con i medici provinciali e una rete
fitta di Medici Generici Territoriali. Medicina scolastica, leva militare, screening schermografici e vaccinazioni obbligatorie completavano una rete di prevenzione che aveva dato risultati molto lusinghieri dai primi anni venti in avanti.
Purtroppo, la politica di allora inserì alcuni ulteriori elementi ideologici tipici del tempo e invece di limitarsi ad accorpare tutti i “terzi pagatori” in un solo sistema, sfruttò l’occasione per nazionalizzare gli ospedali, cioè conglobare tutte le realtà locali una sola grande struttura nazionale, sul tipo dell’IRI che ricordiamo come fallimento esemplare. Inoltre, si decise di smantellare i reparti “solventi”, accessibili agli iscritti alle mutue più onerose e generalmente in forma di “fringe benefit” ante litteram agli operatori sanitari dipendenti dalla struttura stessa, livellando le prestazioni alberghiere verso il basso.
Il “centralismo democratico” sanitario ben presto si rivelò fallimentare. Così nel 1992 venne la legge 503, eccedendo questa volta verso la parte opposta. Venne reintrodotta una contabilità
analitica di tipo aziendale senza mantenere la visione della Sanità come servizio che lo Stato VUOLE erogare per proteggere i cittadini dalle malattie e sé stesso da inutili costi con la prevenzione.
Vennero create le Aziende Sanitarie Locali e in seguito la riforma del Titolo V della Costituzione ne trasferì in governo alle regioni, senza una governance piramidale che ne garantisse universalità ed equità. Se negli anni venti era un orgoglio degli Stati costruire scuole e ospedali, dopo il 1992 in Italia il numero degli ospedali diventa una criticità. La Sanità non è più vista come un investimento per garantire la Salute popolare, ma un costo sociale da comprimere quanto possibile.
Nascono così la devianza per cui l’efficienza è più importante dell’efficacia ed è possibile che un Assessore lombardo possa invocare il “Governo della Domanda” invece del suo stimolo alla emersione.
Le regole dell’accreditamento aprono la strada ad una sana competizione qualitativa tra pubblico e privato, ma purtroppo l’idea prende subito una piega discutibile. Invece di dare libero accesso ai concorrenti privati ed applicare norme uguali a pubblici e privati, nei fatti un atteggiamento di salvaguardia per il pubblico lo libera dai controlli sulla qualità, e il blocco degli accreditamenti limita iprivati a pochi gruppi raccolti in un oligopolio con oscure vicinanze con la politica.
Il COVID non ha fatto altro che anticipare una crisi gestionale ben nota da anni a chi operava nel sistema. Oggi, nella generale confusione, l’unico dato certo è che il modello delle libertà regionali ha fallito. Inoltre, i ticket e i limiti imposti alle prestazioni sanitarie con la scusa della appropriatezza stanno spingendo ampi strati della popolazione ai limiti della fruibilità, impedendo ogni prevenzione seria.
Ha facile gioco Garattini in un libro peraltro molto ben fatto e quasi totalmente condivisibile, “Il futuro della nostra salute”, a far rivivere una visione arcaica da “centralismo democratico” con la riedizione di una “IRI sanitaria”. E’ evidente che ora è necessaria una revisione generale della tutela della Salute in Italia, ispirandosi a pochi sani principi.
Per un governo giusto, sostenibile ed efficace di una Sanità pubblica, universalista ed equa, va costruito un sistema di governance policentrico, ove i vari poli si controllano a vicenda, al fine di tenere entro livelli tollerabili la naturale spinta corruttiva insita in ogni grande progetto pubblico e contemporaneamente assicurare la uniformità territoriale delle prestazioni effettivamente erogate, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo.
Il finanziamento deve essere governato dallo Stato e tratto dalla fiscalità generale, con un valore complessivo allineato ai valori medi dei grandi paesi europei, cioè aumentato di circa un terzo. Gli erogatori possono essere sia pubblici che privati, a patto
di requisiti uguali per qualità della prestazione e tipologia di offerta. L’accesso all’accreditamento deve essere aperto alla libera concorrenza nazionale ed europea per rompere l’attuale sistema oligarchico consociativo tra politica e aziende. Vanno rimossi i limiti di accesso alle prestazioni. Vanno abolite le forme di copagamento (ticket) che deprimono la domanda e ostacolano la prevenzione. La offerta sanitaria deve essere intesa a far EMERGERE la domanda, per intercettare le patologie ancora in fase iniziale di sviluppo, e NON REPRESSA. Il costo viene coperto dai risparmi sulla cura delle malattie croniche e dall’allineamento ai livelli di spesa europei. E soprattutto, la sanità deve tornare ai competenti e va tolta ai guitti