di Luciano MENEGHETTI
Domenica scorsa i 5 referendum abrogativi sono naufragati miseramente sullo scoglio del “quorum”.
Molti hanno gongolato, ma è la stessa allegria dell’orchestra che suonava sulla tolda del “Titanic” mentre affondava.
Soprattutto il fallimento dei tre referendum sulla giustizia è drammatico, se solo pensiamo allo stato dei processi penali in Italia, processi che durano anni, alla faccia di chi ha voluto introdurre in Costituzione la norma dell’art. 11 comma 2 sulla obbligatorietà della “ragionevole durata del processo”.
Di ragionevole nel nostro paese è rimasta solo la pazienza dei cittadini.
Nel 1989 abbiamo tentato di “scimmiottare” il processo penale di stampo “accusatorio” anglosassone, introducendo il principio della formazione della prova in dibattimento.
Nobile fine, se non fosse che essa richiedeva un presupposto indefettibile: la concentrazione del dibattimento. Senza concentrazione l’oralità e l’immediatezza perdono valore.
Da un lato abbiamo previsto un processo penale che, per funzionare, dovrebbe, necessariamente, durare pochi mesi, dall’altro, in concreto, lo facciamo durare anni.
E senza trovare una soluzione per risolvere il problema.
Il processo dall’inizio alla sentenza dovrebbe svolgersi con la maggiore rapidità possibile, in modo tale che il ravvicinamento dei vari atti, necessario a determinare il convincimento del giudice, possa garantire che questo sia il prodotto fedele delle risultanze del processo, percepite dal giudice in un periodo breve e senza che la sua attenzione sia deviata da fatti esterni dovuti al trascorrere del tempo.
Fanno sorridere le norme attuali del codice di procedura penale che prevedono che, quando il processo non si può esaurire in una sola udienza, questa debba proseguire “nel giorno seguente non festivo” (art. 477 comma 1) e che il giudice può rinviare l’udienza “soltanto per ragioni di assoluta necessità e per il termine massimo che,…, non oltrepassi i dieci giorni, esclusi i festivi” (art. 477 comma 2).
Chiunque abbia avuto la “disgrazia” di avere, anche solo come testimone, la ventura di partecipare a un processo penale, ha toccato con mano quanto quelle norme restino inapplicate e “sulla carta”.
Dibattimenti che si trascinano stancamente per mesi o anni, con prove che si assumono in udienze distanti mesi, con giudici che tra un’udienza e l’altra si occupano di altre decine di processi e adottano decine di sentenze diverse.
Diciamolo: il processo penale italiano non è un processo orale, ma, il più delle volte si trasforma in un processo scritto.
Ormai sia i magistrati che gli avvocati sono assuefatti alla lunga durata dei dibattimenti e alla speranza di far così maturare la prescrizione.
Peccato che gli unici a non essersi mai abituati a questo andazzo, sono, giustamente, i cittadini.
A questo, della durata dei dibattimenti, che è il problema dei problemi della giustizia italiana, cerca di mettere una pezza la riforma”Cartabia”, con l’art. 1 comma 11, lett. a, il quale stabilisce che il legislatore delegato dovrà prevedere che se il processo non si può esaurire in una sola udienza, il giudice, nel rinviarla, dovrà comunicare alle parti il calendario delle udienze successive dell’istruzione dibattimentale, fino alla sentenza.
Staremo a vedere se i giudici avranno il buon cuore di “concentrare” le udienze, dovendole prevedere tutte fin dall’inizio.
Io ho seri dubbi che ciò accadrà e penso che l’unica cosa che cambierà sarà il poter sapere quanto presumibilmente, salvo eventi eccezionali, durerà il processo, fin dall’inizio, fin dalla prima udienza di ammissione delle prove.
Magra consolazione, per chi crede che il processo accusatorio orale è inutile farlo se poi, per avere una sentenza, ci vogliono anni.