LA COLPA NON È DI SILVIA
Giorgio De Biasi
È scoppiata sul web la guerra tra coloro che reputano Silvia colpevole della sua sorte e coloro che apprezzano e difendono la sua scelta di aiutare gli orfani in terra straniera dentro ad un quadro umanitario disegnato da una ONLUS Italiana.
Gli uni e gli altri, ancor prima che la ragazza fosse liberata e posta in salvo, non hanno esitato a schierarsi scrivendo inesattezze tipiche di coloro che non conoscono la materia della cooperazione volontaria in territorio straniero da parte di ONLUS Italiane.
Per svolgere un attento esame sulla dedizione di Silvia al volontariato e/o sulla sua giovanile pulsione verso il “selfie africano” è necessario conoscere nel dettaglio lo svolgersi degli eventi e attendere l’esito delle indagini che, si spera, posano concludersi con la cattura dei sequestratori o con la liberazione di Silvia previo pagamento di un riscatto.
Un sequestro di persona finalizzato a determinare il pagamento di un riscatto sembra essere il vero scopo dei rapitori e, secondo la Polizia della regione Noah Mwivanda, il “modus operandi” indirizza verso questa fattispecie di reato.
Solo sotto questo aspetto è oggi possibile affrontare una discussione sul rapimento di Silva allontanando ogni giudizio sulla persona.
Nonostante non sia la prima volta che l’Italia è chiamata a pagare con ingenti somme il riscatto di suoi connazionali sequestrati (inutile fare nomi già conosciuti) le nostre ONLUS non hanno ancora compreso la necessità di pianificare le missioni umanitarie affidate ai loro volontari non solo sotto l’aspetto logistico ma anche e soprattutto assicurando al personale operante quella sicurezza indispensabile per la tutela della loro incolumità.
Le ONLUS e le ONG che inviano i propri volontari in territori ostili e stati ove sono in corso guerre civili e guerriglie hanno il dovere primario di dispiegare, sul territorio dove si opera, tutte quelle misure di prevenzione atte a scongiurare sequestri di persona, aggressioni o omicidi.
Ciò significa affiancare al volontario un adeguato servizio di scorta e tutela reclutando in sede locale professionisti della sicurezza e interpreti di madre lingua locale capaci di interfacciarsi sia con la popolazione che con il volontario.
Ciò significa chiedere preventivamente al Governo italiano il proprio parere e/o benestare per l’invio di Italiani nei territori giudicati “a rischio” così come è necessario sviluppare opportuni contatti con i Governi dei paesi che si intendono aiutare affinché concorrano al dispositivo di protezione da dispiegarsi.
Certo. Il dispiegamento appena descritto aumenterebbe notevolmente il costo della missione, già appesantito dal necessario “rimborso spese” agli operanti e dal soddisfacimento dei costi logistici dell’inserimento e degli aiuti.
Tutte queste misure di prevenzione sono ben conosciute e dispiegate dalle numerose società italiane che operano nei territori a rischio e che si sono rivelate considerevole deterrente salvaguardando la vita di operai e tecnici.
Non conosco se tali misure siano state adottate anche dalla ONLUS che ha inviato Silvia in terra straniera ma delle due l’una: se disposte non hanno funzionate mentre se non disposte illuminano una realtà di “risparmio” che non può essere condivisa.
La vocazione di “aiutare” non può essere improvvisata secondo le pulsazioni del cuore del volontario. Deve sottostare a precise procedure finalizzate alla riuscita della stessa missione umanitaria ed alla salvaguardia della vita di chi opera.
Nessuna improvvisazione è ammessa.
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