di Luciano MENEGHETTI
Sicuramente no.
I magistrati in Italia ritengono che il loro lavoro abbia una finalità “messianica”: raddrizzare il legno storto dell’uomo, di Kantiana memoria.
Per questo pensano che tutto sia loro permesso.
La riforma della giustizia, che tutti, salvo i magistrati, ritengono indilazionabile e che questo governo sta tentando, tra mille difficoltà, di portare a termine, è ben poca cosa rispetto a ciò che servirebbe. Tuttavia, l’Associazione Nazionale Magistrati minaccia uno sciopero contro la sua approvazione.
Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso i magistrati avevano già minacciato di scioperare, ma per ottenere miglioramenti economici. Bastò la paura dello sciopero per costringere i governi di quel periodo a concedere ai magistrati gli “stipendioni” di cui godono oggi. Peraltro, emolumenti da manager senza alcun obbligo di risultato, come hanno i manager.
Già all’epoca si discusse sulla legittimità di uno sciopero della magistratura, che, essendo un potere dello stato, sciopererebbe contro gli altri poteri dello stato. Non c’è chi non veda il cortocircuito e la pericolosità di una tale ipotesi. Solo l’ANM non li vede.
Si disse, nel secolo scorso, che lo sciopero dei magistrati per motivi economici poteva essere ritenuto accettabile. Si sostenne, infatti, che essi, come dipendenti pubblici, se non avessero il diritto di scioperare per tale motivo, resterebbero privi di uno strumento di tutela concesso dalla Costituzione a tutti gli altri lavoratori.
Anche questo argomento, però, a ben vedere, era debole, visto che le Forze di Polizia in Italia non avevano e non hanno tale diritto e ciò è considerato normale, anzi opportuno.
Ben altra cosa è, comunque, uno sciopero della magistratura, potere dello stato, contro governo e parlamento, ugualmente poteri dello stato, per impedire o per modificare una legge, “in itinere”, non gradita.
E non di una legge qualsiasi parliamo, ma di una riforma, la “Cartabia”, che disciplina il servizio erogato dai magistrati ai cittadini e il loro rapporto con gli altri poteri dello stato.
Si tratta, con tutta evidenza, di uno sciopero squisitamente “politico”.
È vero che lo sciopero può avere anche natura “politica”, come lo sciopero generale. Tuttavia, quest’ultimo è indetto dai sindacati confederali che rappresentano la generalità dei lavoratori, per fini di valenza generale e per interessi di tutta la popolazione.
Non potrebbe essere diversamente in una nazione in cui l’art. 1 della Costituzione dice che la Repubblica è fondata sul lavoro.
I magistrati, invece, esercitano un potere statuale fondamentale, la giurisdizione, a cui la Costituzione dedica un apposito capo.
Può un potere dello stato fermarsi per influenzare l’esercizio degli altri poteri dello stato e, soprattutto, per agire sul potere legislativo che, come in questo momento, vuol regolamentare i rapporti tra i poteri?
Cosa direbbero i magistrati se i parlamentari scioperassero, bloccando i lavori delle Camere, per protestare contro una sentenza?
Il prospettare anche solo l’ipotesi di uno sciopero “politico” dei magistrati, da parte della loro associazione, è, dunque, “eversivo”.
D’altra parte, come sorprendersi che questo accada in Italia, patria di una magistratura “populista”, capace, ai tempi di “mani pulite”, di portare in televisione un manipolo “sordo e grigio” di P.M. che dava lettura, tipo giunta “cilena”, di un comunicato contro un provvedimento del governo (il decreto “Biondi” e prima ancora il decreto “Conso” sulla giustizia), decreto che, infatti, fu ritirato.
Quel pericoloso precedente, che ha scardinato gli assetti istituzionali della Repubblica italiana come delineati dalla Costituzione, oggi si ripropone, aggravato.
Se, infatti, il proposito dei magistrati di scioperare contro la riforma “Cartabia” venisse portato a compimento, non di crisi della giustizia dovremmo parlare, ma di crisi istituzional-costituzionale.
Il Presidente della Repubblica, presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, che fa, dorme?