SUL CONGRESSO CGIL E ALTRI CONGRESSI
di Giorgio De Biasi
Stamani 24 gennaio 2019 sulla stampa si leggono le difficoltà interne che La CGIL incontra nel suo Congresso nonostante sia vicino un accordo per il nuovo vertice, con Maurizio Landini segretario generale e Vincenzo Colla vice.
Al centro dell’accordo anche la ventilata posizione della Camusso nella segreteria.
Nella proposta su cui si sta chiudendo l’accordo è previsto anche l’ingresso di un secondo vicesegretario generale, donna.
Una riunione della commissione elettorale, nell’ambito del 18/o Congresso nazionale della Cgil a Bari, porterà giovedì prossimo all’elezione del suo nuovo segretario generale, che succederà a Susanna Camusso.
Anche questa volta per la CGIL, come succede per tutte le altre organizzazioni sindacali di qualsiasi natura esse siano, il passaggio congressuale ha confermato quella realtà che tutti conoscono ma che pochi analizzano.
Nella vita complessiva di tutte le organizzazioni sindacali ed anche di riflesso nella vita complessiva dei suoi iscritti, il “potere-dovere” della rappresentanza trova il suo più alto significato nello svolgimento dei congressi nazionali dentro i quali e per mezzo dei quali il sindacato “attore sociale” traccia le sue linee guida.
Confronto e dibattito, che il congresso nazionale obbliga, non si sviluppano esclusivamente sulle tesi politiche, sindacali e programmatiche ma anche – ad a volte con maggiore enfasi – sulla struttura organizzativa interna preposta al funzionamento ed alla direzione del sindacato stesso.
L’analisi sullo svolgimento di più congressi nazionali, spesso conclusi con il nascere o il consolidarsi di maggioranze e minoranze e, in alcune esperienze, con autentiche scissioni, ha evidenziato che nessun congresso è mai stato in grado di vincolare un’idea all’altra così come nessun congresso può vincolare ciascun delegato ad altri delegati e/o un gruppo ad altri gruppi.
Nei congressi nazionali si è sempre potuto notare che ogni coalizione di pensiero ed ogni coalizione per il governo del sindacato conserva sempre un margine di libertà ovvero conserva sempre intatta la sua possibilità di negoziare.
Escludendo dall’analisi i congressi dei sindacati unici di stati in cui una dittatura governa negando una democrazia parlamentare, è possibile “brutalmente” affermare che ogni corrente di pensiero e coalizione di governo cercheranno, nell’ambito del democratico confronto del congresso, di sfruttare al meglio quel margine di libertà appena citato per negoziare il proprio spazio, nonché i tempi ed i modi della sua “partecipazione” al sindacato nel tentativo di accreditare le proprie linee guida di politica sindacale e le proprie strategie in tema di organizzazione interna e direzione del sindacato stesso.
Questa realtà, sempre presente nelle organizzazioni sindacali che scelgono di sottoporre ai propri iscritti la periodica verifica del consenso mediante i Congressi può divenire “critica” nelle fasi preliminari, quando nei congressi della Sezione Locale, delle strutture Regionali e Provinciali propedeutici a quello nazionale, l’iscritto deve necessariamente scegliere a quale linea politico sindacale ed a quale delegato affidare il potere-dovere della rappresentanza.
Ecco quindi che, nel congresso, il sindacato si rileva per quello che è veramente. Ovvero si rileva quale organizzazione complessa ed articolata, il cui funzionamento si determina per un insieme di meccanismi concatenati e mossi spesso da contrastanti razionalità di pensiero.
Nel congresso il sindacato è sempre chiamato a svolgere quel ruolo di “conflittuale” dove gli scontri tra razionalità spesso divergenti di correnti di pensiero e coalizioni per il governo utilizzano liberamente e legittimamente il potere-dovere della rappresentanza per coagulare il consenso verso le idee possedute da sottoporre al dibattito ed al confronto.
La ricerca congressuale tesa ad individuare un “obiettivo comune” è destinata a fallire poiché, come la storia delle OO.SS. insegna le incoerenze, le inerzie e l’attivismo che sono proprie del sindacato obbligano la ricerca di un “obiettivo condiviso” capace di rendere tutti gli iscritti orgogliosi di partecipare alla vita dell’attore sociale al quale hanno aderito.
Un “obiettivo comune” non ci può essere perché la stessa struttura organizzativa obbliga una divisione delle responsabilità in base al posto che i titolari del diritto-dovere della rappresentanza occupano all’interno del sindacato.
Ognuno di questi ha, infatti e per effetto del posto occupato, una visione propria (oso dire deformata) degli obiettivi da raggiungere; obiettivi che difficilmente accetterà di modificare perché il suo impegno è quello di considerare l’obiettivo limitato e intermedio che gli è stato affidato dal livello Provinciale, Regionale e Nazionale come obiettivo principale da perseguire.
È il caso di una struttura periferica chiamata ad una contrattazione di secondo o terzo livello livello con la quale deve raggiungere obiettivi “locali” che, seppur legittimi, risultano a volte contrastanti con gli obiettivi Regionali e Nazionali specie in tema di orario di lavoro, straordinario, ambiente e salubrità ed altro.
Ancora brutalmente è possibile affermare che talune decisioni assunte dal titolare del potere-dovere della rappresentanza, pur “volendo il bene” finiscono per realizzare “il male” poiché ciò che legittimamente è assunto in un livello di responsabilità credendo di fare il bene può realizzare un danno nell’azione de livello superiore.
Ecco perché “andare d’accordo” risulta difficile. Risulta difficile perché ognuno, utilizzando il proprio margine di libertà (il proprio convincimento) adatterà la propria azione indirizzando il suo consenso verso quel gruppo di “consenso condiviso” che più garantisce l’affermazione delle sue idee e che più garantisce il suo interesse perché, nel nostro universo sindacale (autonomo o confederato che sia) i vantaggi ed i benefici di ogni tipo creati dall’organizzazione sono sempre indirizzati verso individui e gruppi che si disputano la loro distribuzione.
Questo è lo scotto che il sindacato deve pagare per esistere. È la condizione stessa della sua capacità di mobilitare il contribuito dei suoi iscritti per ottenere da loro quel consenso senza il quale non potrebbe svolgere la sua funzione di “attore sociale”.
Riconoscere che il sindacato è un luogo di confronto e che la sua esistenza sarà sempre precaria non significa affermare che la sua vita non sia anche regolata da meccanismi naturali quali la solidarietà e l’amicizia consolidata dei dirigenti dei vari livelli di rappresentatività.
Un solo pericolo può modificare la natura democratica dei sindacati. Esso si materializza quando alcuni membri e/o gruppi estendono la propria “zona di libertà” riducendo la loro dipendenza da quella di altri membri e/o gruppi mediante la “limitazione” o “esclusione” (minoranza) di questi dalla partecipazione alla vita dell’organizzazione, trasformando così, il democratico governo del sindacato in oligarchia dominante.
Dire, come si è detto, che il sindacato non è immune da possibili deflagrazioni (scissioni) quando alcuni suoi membri o gruppi cercano di perseguire le loro strategie personali non significa affermare che “il sindacato non può esistere”: significa semplicemente portare alla luce l’evidenza che l’organizzazione di un sindacato è un problema delicato da non sottovalutare.
Tornando quindi all’inizio e soffermandosi su quella riunione della commissione elettorale, nell’ambito del 18/o Congresso nazionale della Cgil a Bari, porterà giovedì prossimo all’elezione del suo nuovo segretario generale, che succederà a Susanna Camusso, è possibile affermare che il sindacato, tutti i sindacati, esistono non tanto grazie all’azione dei suoi membri ma bensì “malgrado l’azione di suoi membri”.
Il Sindacato non funziona “grazie alla squadra” ma bensì “nonostante la squadra”.